Vaso di Pandora

Sull’utilità della depressione

Insieme a lui, moltissimi attori, cantanti, politici e divi dello spettacolo che dietro i loro sorrisi sui rotocalchi o davanti alle telecamere hanno lottato per anni con il “cane nero”, a volte purtroppo soccombendo nel tentativo. Ma come spiegare tutto ciò? Come è possibile che una persona che “ha tutto”, come spesso viene sconsideratamente ricordato a chi soffre di questa condizione, possa cadere nel nero abisso interiore che noi chiamiamo Disturbo Depressivo? La risposta non è facile, anche se la domanda è antichissima.

I Greci, nella loro saggezza, avevano inteso che essa fosse causata da un eccesso di bile nera, un secreto dell’organismo che era associato alla terra (e difatti la Depressione tende al basso) e che molto intelligentemente nella medicina ippocratica veniva collegato anche alla collera. Da qui, il termine Melancolia, da Melas (nero) e Chole (bile) ad indicare la caratteristica tristezza priva di energie che caratterizza tale condizione, la quale veniva collegata al dio Saturno dai Romani. Vecchio, gonfio, paludoso e divoratore dei propri figli, Saturno è il dio dell’immobilismo e della stagnazione, condizione nella quale coloro caduti sotto il suo astro vivono. Termine interessante Melancolia, usato come titolo anche dal regista Lars Von Trier per un’opera grandiosamente priva di speranza che ben rende lo scoramento interno e la mancanza di prospettiva di chi vive questa esperienza. Devo ammettere che francamente lo preferisco a quello clinico di Depressione, ormai troppo psichiatrizzato per rendere appieno l’aspetto esistenziale di questa condizione, che a mio avviso è indispensabile per poter arrivare a una piena comprensione del messaggio della “nera signora che siede al nostro tavolo”, come la definiva Jung e che, sempre secondo lo psichiatra svizzero, bisognava a tutti i costi ascoltare.

Fu Sigmund Freud, con una delle frasi che io considero più belle in assoluto tra ciò che ha scritto, a descrivere la Depressione come “l’ombra dell’Oggetto che ricade sull’Io”. Frase non solo tecnicamente ineccepibile, ma di una potenza figurativa che ancora oggi stupisce. Collegandosi alla brillante intuizione dei medici dell’antichità, Freud ipotizzò che la rabbia diretta verso l’Altro, verso il Genitore troppo fragile o minaccioso per accoglierla, veniva rivolta verso sé e interiorizzata, creando una drammatica guerra civile interiore in cui una parte, facendo le veci del carnefice, attacca senza pietà l’altra, fragile e bisognosa di affetto, fino a mortificarla e a farle considerare sé stessa come un problema per il mondo.

Tutti noi sappiamo quanto le parole delle persone alle prese con questa Oscurità siano intrise di svalutazione del Sé, di autocolpevolizzazione, dalla percezione di inutilità alle drammaticissime forme psicotiche, dove la persona affetta da Depressione si considera addirittura una catastrofe non solo per i propri familiari, ma per il genere umano nella sua interezza, arrivando a forme di autolesionismo o di reclusione estreme, fino a lasciarsi morire.

Naturalmente, a nulla servono le parole di incoraggiamento, anche se accompagnate dalle migliori intenzioni: esse non fanno altro che sottolineare il senso di inadeguatezza di chi vive questa condizione, poiché nelle frasi degli altri vien vista solo l’ennesima attestazione della propria incapacità di uscire dalla palude nella quale sono immersi. 

Cosa fare allora? Ciò che propongo è paradossale, ma io credo che l’unico modo di risalire dal pozzo sia quello di accettare intanto la discesa. Accettare il messaggio della “nera signora” vuol dire tentare di disvelarne il senso intimo e profondo, e per farlo non vi è altra soluzione che scendere in basso, al pari degli eroi mitologici che per ricevere un vaticinio riguardo alle loro imprese erano costretti a discendere nell’Ade per interrogare i grandi veggenti. Naturalmente, ogni discesa negli Inferi necessitava di un sacrificio, così come ogni discesa nelle profondità della psiche comporta dolore e sofferenza, e ciò è particolarmente vero nella Malinconia. Il termine Depressione quindi a mio avviso non è indicato per identificare una psicopatologia, ma piuttosto un Movimento, quella direzione che parafrasando Hillman ci porta a scoprire il senso tragico della vita, e quindi a tenerci in contatto con Thanatos, ovvero con la morte e con tutto ciò che ha a che fare con essa. Proprio da qui si può forse ripartire per ricontattare Eros, ovvero la Vitalità nella sua forma più alta, e tentare quel faticoso riequilibrio delle due grandi forze che secondo il pensiero psicoanalitico si contendono la nostra anima.

Se, per citare Savinio, la Malinconia è una “sosta della speranza”, allora dobbiamo anche partire dall’accettazione che a volte si può persino legittimamente smettere di sperare per un periodo della nostra vita, purchè ci si ricordi che la cosa che teme maggiormente il nostro Inconscio non è la morte ma una vita non vissuta, come Jung sottolineava con umanità ad una inconsolabile vedova, cercando di farle cogliere l’insegnamento profondo che si cela dietro un dolore così insostenibile. 

Facile, troppo facile a dirsi, complicatissimo da realizzare, ma non per questo impossibile. Ci vuole innanzitutto accettazione, consapevolezza, affetto, sana rabbia…. e un po’ di speranza, che col tempo arriverà.

Bibliografia di riferimento

Freud, S. Lutto e melanconia (in Metapsicologia) in Opere, 1915-1917, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976

Gherli, F. (a cura di) Regola sanitaria salernitana : Regimen sanitatis salernitanum / Salerno : Ente provinciale per il turismo, 1954

Hillman, J. Psicologia archetipica; con un saggio di Silvia Ronchey Roma: Treccani, 2021

Jung, C.G.  Jung parla: interviste e incontri / a cura di William McGuire e R. F. C. Hull; traduzione di Adriana Bottini Milano: Adelphi, 2009

Jung, C.G. Psicologia dell’inconscio Bollati Boringhieri, 2012.

Jung, C.G. L’uomo e i suoi simboli Tea, 2007.

Savinio, A. Nuova Enciclopedia Milano: Adelphi, 2011

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