Nulla di sorprendente. Dire la verità è una operazione mentale relativamente semplice: c’è una immediata corrispondenza di ciò che dico con la realtà fattuale ( o almeno con quella che ritengo tale: posso non mentire dicendo una cosa errata e pensando che sia vera, o a contrario dire accidentalmente cosa vera mentre sto soggettivamente mentendo).
Al contrario, la menzogna è chiaramente una operazione complessa: significa saper agire su due registri, distinguendo ciò che è vero da ciò che devo all’altro, in base a quelle che ritengo siano le sue aspettative: devo quindi saper formulare una pur semplice teoria della mente. La menzogna è al servizio di un progetto, di una intenzione, di un desiderio. Implica dunque un riconoscimento di sé stesso, dell’altro, dei loro relativi progetti di solito fra loro confliggenti.
La bugia ha un intricato rapporto col concetto di verità. E’ ovvio che definire la verità non è sempre operazione così semplice come quella descritta in questa ricerca: ci si scontra con tante diverse definizioni di ciò che intendiamo per vero. Pensiamo – per lasciarla subito da parte – all’impervia discussione sulla “verità” della interpretazione psicanalitica. Ma nel caso della ricerca di cui parla l’articolo, ci si può attenere alla definizione più semplice e più ampiamente impiegata: verità è corrispondenza di una affermazione al dato di fatto; bugia è la non corrispondenza.
Diversi i tipi e le motivazioni della menzogna: quella pietosa che si rivolge a un malato inguaribile; quella dolosa del cavaliere d’industria Felix Krull descritto da Mann o del Bugiardo goldoniano con le sue “spiritose invenzioni” non prive di intenzione esibizionistica; predominante, questa, in quella ampia frazione di “fake news” (traduzione alla moda di “bugia”) che non risponde a un preciso interesse economico o politico.
Fa storia a sé l’autoinganno, che mettendo la sordina ai conflitti può avere un ruolo rassicuratorio e apparentemente equilibratore nell’economia mentale. L’autoinganno può avere un preciso rapporto con quella condizione collettiva che è la falsa coscienza, sorta di grande e globale bugia che ci ha fatto e ci fa dimenticare nessi scomodi: che so, la violenza implicita in ogni potere incluso quello statale; o, nel nostro campo, le radici socioeconomiche del disturbo mentale e della sua prognosi. False coscienze superate, si dirà: ma non è superata quella che, mentre giustamente compiangiamo una a una le vittime di un attentato terroristico, non ci fa riservare altrettanta attenzione a quelle dei bombardamenti aerei messi in atto, anche su civili, dalla forza aerea dei paesi occidentali. Di quelle spesso conosciamo nomi e volti: di queste, mai.
E’ tuttavia possibile che certe forme di falsa coscienza siano parte irrinunciabile del mito fondante di una collettività: forse non c’è società che possa farne a meno, anche con finlità di autoconservazione. E questo introduce al problema etico. Con discutibile intransigenza, Kant giungeva a dire che, se qualcuno si rifugia in casa mia perché inseguito da un assassino, se interrogato da questi devo dire la verità. Posizione criticata da tanti, a partire da B. Constant: nessuno ha diritto a una verità che nuoce ad altri.
Infine: nell’esempio posto da questo articolo, e in tante altre situazioni, la bugia ha evidente rapporto con la trasgressione. E’ dunque sensato rivalutare l’una e l’altra come momenti sanamente evolutivi, e l’articolo porta acqua a questo mulino. Ma questa rivalutazione porta con sé un’insidia: quella di svuotarle di senso. La trasgressione, come la bugia spesso connessa, è momento sanamente evolutivo: ma se la incoraggi, che trasgressione è? Si deve trasgredire contro qualcuno, non con il suo permesso. Mi pare che questo discorso sia in rapporto con la perdita del padre più volte lamentata da Recalcati, che ci lascia forse, più che liberi, oppressi da un penoso senso di vuoto.